di Annarosa Buttarelli, filosofa e Direttrice Scientifica della Scuola di Alta Formazione Donne di Governo
pubblicato su Tuttolibri de La Stampa - sabato 28 Dicembre 2024
I vent’anni trascorsi dalla morte di Susan Sontag hanno condotto il mondo ad essere molto differente da quello del 2004, eppure la signora del Camp ha lasciato tracce inquiete che sembrano profetizzare le vertiginose evidenze in cui viviamo oggi. In Contro l’interpretazione, uno dei suoi saggi più letti anche in Italia, definisce bene il suo programma Camp, esistenziale e di scrittura: vedere il mondo come fenomeno estetico.
A questo programma rimarrà fedele per tutta la vita perché sembra che le abbia permesso di sfuggire alle seduzioni della carriera e della mentalità accademica, per essere libera di navigare nell’immediato contatto con la realtà, vissuta sfiorandone le increspature della superficie. La sua impostazione estetica non fa diventare la sua opera estetizzante, e questo evitamento sta in una contraddizione in cui la sua mente sembra precipitare: l’assoluta fermezza con cui sostiene l’obbligo di rimanere fedeli alla realtà così com’è, un impegno che lega Susan Sontag, a sua insaputa, alle più importanti pensatrici del Novecento. Ancora oggi questo è un problema lancinante e di difficile comprensione per la maggior parte delle persone che sono irretite dalle parvenze confezionate dai social, dai media e dagli algoritmi: vedere la realtà così com’è. “Non bisogna perdere di vista la cosa in sé, perché la cosa in sé esiste davvero”, dice in un’intervista pubblicata da un amico dopo la sua morte (Odio sentirmi una vittima, 2013).
Per questo, oggi, sarebbe importante rileggere almeno le opere più importanti di Susan Sontag, anche per comprendere come il suo programma estetico, in realtà, in lei non ha mai provocato un distacco dalla realtà, ma anzi l’ha aiutata a visitarne la superficie esercitando continuamente i sensi, e superando la rottura tra ciò che è visibile e ciò che è invisibile. Forse, è da comprendere, più profondamente di quanto si sia fatto a suo tempo, il contributo di Susan Sontag alla riflessione tutta femminile (ora anche femminista) sull’importanza di fuoriuscire dalle ideologie e dalle filosofie astratte che hanno accompagnato le pratiche di dominio sulla realtà stessa.
È stata saggista, romanziera, drammaturga, cineasta, attivista di sinistra famosa anche qui nell’Europa degli anni Sessanta. Essere stata tutto questo ha avuto a che fare con il suo ostinato desiderio di conoscenza che, magari, ha contribuito a creare qualche aspetto della dissipazione delle sue energie creative ma, allo stesso tempo, le ha permesso di partecipare a tutto quello che le era contemporaneo senza supponenza accademica e senza abbandonare l’amore per la cultura classica e canonica: “Durante tutti gli anni Sessanta sono stata atterrita dall’antiintellettualismo del movimento, degli hippies e delle altre persone con cui mi sono trovata fianco a fianco in varie situazioni politiche.” Anche questa è una lezione da ripercorrere in tempi di cancel culture che avrebbe certamente fatto orrore a Susan Sontag. Si dice che non desiderasse approfondire più di tanto quello che imparava, e anche questo va visto come un elemento intuitivo di anticipazione a una necessità che segna i tempi attuali: superare la separazione ormai insopportabile tra élite degli intellettuali e quella che un tempo si amava chiamare “cultura popolare”. Susan Sontag considerava “popolare” anche il rock and roll che le aveva “cambiato la vita”, anche se non ha mai abbandonato le sue radici di donna colta: “Quando vado al concerto di Patti Smith mi diverto, partecipo, apprezzo e sono più in sintonia perché ho letto Nietzsche.”
Più che moderna o postmoderna, come potrebbe apparire, penso che Sontag sia pienamente contemporanea a noi, senza bisogno di attualizzazioni, e questo lo possiamo verificare se proviamo a condividere la sua lotta contro l’uso perverso delle metafore, extra scrittura poetica. Sia in Contro l’interpretazione (1961), sia in Malattia come metafora (1977), la sua lotta diventa convincente e illuminante. Susan Sontag intendeva incitare a “tornare a fare un’esperienza più immediata di ciò che abbiamo”, non solo quindi di “lasciare in pace le opere d’arte” come, in modo analogo, Carla Lonzi avrebbe consigliato nel 1969 con il suo Autoritratto, scritto per disautorare l'interpretazione dell’arte da parte dei critici.
Poi Sontag si ammalò di cancro e, invece di raccontare la malattia in modalità soggettiva, prese l’occasione per riprendere la missione di stare alla “cosa in sé: “Non interpretare la malattia, non trasformare una cosa in un’altra.” Giustamente, se l’è presa contro lo psicologismo di massa: “Quasi sempre un tumore suscita in chi si ammala un sentimento di vergogna”; se l’è presa contro le interpretazioni psicosomatiche: “Una malattia polmonare è, metaforicamente, una malattia dell’anima.”; se l’è presa con l’uso figurato o metaforico della malattia.” La sua tesi è che la “malattia non è una metafora, e che il modo più veritiero di concepirla – il modo più sano di essere malati – è quello che riesce meglio a purificarsi dal pensiero metaforico”, ovvero un pensiero che sovrappone alla “cosa in sé” l’esorcismo delle metafore consolatorie o colpevolizzanti. Nel travaglio del presente abbiamo ancora bisogno di Susan Sontag.